unam spatio duorum Crazonarum communalium, et
protendendo in parte Ponentis usque ad novarn Do-
mimi Hceredum quond. Crassani.
La bolla poi pontificia 30 ottobre 1322 di Gio-
vanni XXII conferma la fatta concessione ai RE» Pa-
dri , ne adduce i motivi, ne onora l'istituzione.
Ottenuto da essi dunque il luogo ingombro d'al-
tri edifizii di poco conto, si dierono a conformare il
chiostro, che per non essere surto dalle fondamenta,
non acquistava regolarità. Indi fabbricarono la chiesa
di una sola navata, che dopo la cattedrale è la più
grande. II soffitto è di legno duro a cassettoni con
pitture di sotto in su incassate, mostrando se non e-
leganza, magnificenza. Sarebbe riuscito più ricco, e
di maggior pregio se ad uso de' tempi fosse stato in-
dorato: rimanendo ciò nel desiderio di farlo, se le
circostanze fossero state più propizie. Alcuni altari
di goffa architettura hanno de' quadri della scuola
veneta della terza epoca, nè altri pregi possono in
esso tempio annoverarsi.
Molti religiosi per dottrina e pietà illustraro-
no questa congregazione. Per amore di brevità fa-
rem solo cenno di alcuni. Di fra Martino di Arbe pri-
mo vescovo di Sebenico, già si faceva menzione. Se
le virtù sue non fossero state eminenti, il clero seco-
lare, dal cui seno propriamente doveva trarsi tale di-
gnità, non avrebbe concorso colla popolazione, fa-
cendo eco Enrico arcivescovo di Zara e Pietro di
Spalato ad una simile nomina. Bonifazio poi Vili
confermolla.
Il padre Simeone Baccelliere veniva destinato
da questi cittadini, onde presentare i primi omaggi dj
sudditanza nel 1412 alla republica veneta, unita-
mente ad eletta parte di questi, scorgendosi ciò nella
dedica fatta sotto il doge Michele Steno.
Otteneva la palma del martirio nel 1445 il pa-
dre Nicola della illustre famiglia Travellich. La de-
scrizione delle gesta di lui serbansi nell'archivio del
convento, come le scarpe nello armadio delle reliquie.
Nella medesima epoca il padre maestro Girola-
mo da Sebenico, era creato procuratore dell' ordine
sotto Calisto III. Per sua cura la chiesa ed il con-
vento di Rivalto presso Assisi riedificavansi, atte-
standolo l'iscrizione scolpita nel suo avello.
Girolamo Difnico nel 1564 dottore in sacra teo-
logia levava grido per dottrina e pietà, come pure
altro della stessa famiglia rende vasi benefico per la
costruzione a sue spese del soffitto di sopra menzio-
nato. A' giorni nostri il padre maestro Francesco
Zambelli, dottore in sacra teologia, arricchiva la bi-
blioteca di opere scientifiche, e molte per l'antichità
dell' impressione pregevoli. Il padre maestro Castel-
lani coltivatore felice degli studii filosofici e matema-
tici. Il padre maestro Antonio Tommaseo da pochi
anni mancato in Iloma, noto anche in quella metro-
poli per la sua pietà e pe' colloqui dati in luce pie-
ni di ecclesiastica dottrina, e di pii sentimenti.
Aveva questa religiosa congregazione nel 1760
litigio co'minori osservanti per cagione di prece-
denza. Facevansi forti i conventuali colle bolle di
Clemente VII, Pio IV, Pio V, Sisto V. I secondi
con quella di Leone X. Uscirono però vittoriosi i
primi appoggiati dalle decisioni di Gregorio XII, e
di Urbano XIII, come pure dall'opinione del cardi-
nale de Luca.
Concludiamo. Il monistero de' PP. conventuali
in Sebenico si puote giudicare coevo quasi alla ve-
nuta del santo fondatore dell'ordine a questa parte.
Essi renderonsi sempre accetti al comune, il quale
li accoglieva perciò entro alle mura per farli più
sicuri, prevalendosene nelle grandi congiunture, e
mostrando poi costantemente verso i medesimi ri-
spetto, amore, riconoscenza. Dal canto loro vi cor-
rispondevano collo istruire tenera ed adulta gioventù,
collo spargere semi di dottrina e di pietà, coll'eser-
cizio di tutte quelle opere, che conducono le anime
alla salute. Dimodoché non ci sembra aver errato
apponendo per testo del presente il detto di Livio:
Nulla unquam respub. et e. etc»
PIER ALESSANDRO PARAVIA.
Ci gode l'animo di poter presentare a' nostri
lettori tradotto in italiano il giudizio che VEcho Fran-
cois dei 9 giugno dà intorno al merito letterario ed
alle opere del cav. Pier Alessandro Paravia, di quel
chiarissimo personaggio, eh' è bella gloria e vanto di
Zara sua patria, e di ripetere per tal modo l'eco di
un publico e meritato eneomio.
„ Si dà in questo momento all'università di To-
„ rino, un corso publico di storia nazionale, che com-
„ bina coi desiderii d'una gioventù infiammata d'amor
„ di patria, e che si accalca attorno la cattedra, da
„ cui il professore svoglie gli illustri fatti della casa
„ di Savoia, destinato avendo di seguirne l'andamen-
„toa traverso de'secoli fino allo stato presente del
„ régno di Sardegna. Il professore n' è il signor
„ Paravia, uomo di raro merito, ed i talenti di cui si
„ conobbero già nelle sue lezioni d'eloquenza italia-
„ na per il gusto col quale analizza le bellezze dei
„ grandi scrittori, e sa prudentemente far tenere il
„giusto mezzo ai suoi discepoli tra la severità deila
100 c^
ne. — Quandò egli frbvavasì n& Gall^ una èruida
gli aveva predetto, sarebbe Jmperatorpjtadi» aves-
se ucciso un cing|iMe (in latteo Ap^O- \Msta Pa-
rola fece profonià impressione néll* ambizioso dal-
mata, essendo comuni gli esempii nell' armata di gre-
garii saliti al trono; per cui tenne in sè celata la
predizione, e vòlte verificarla. Andò più volte alla
caccia, ma sènza frutto, e vedendo Tacito, Probo e
Caro promossi a&fafcpero usava dire: io uccido il
selvaggiume ed altri sei mangia. Uopo aver ucciso
Apro, parvegli fosse compito l'oracolo. La sua ele-
ziajieav^emi* ja Calcedonia (anni di Roma 1036,
286 dopo G. jC.), e dieci giorni dopo fece la sua
entrata in Nicoiaédia, che divenne la sua prediletta
ed imperiale residenza. La morte di Caro avea fatto
sospendere la guerra felicemente incominciata con-
tro5 a persiani, eL'armala romana ritirossi adunque
dalpaèse nemico, rientro tran^ilfymente sulla terr^
dell'imperio, « si avanzò «traversando la Siria e l'A-
sia verso l'occidente. -e Moina. Carini che trovavasi
nell'occidente andò ineontto a Diocleziano nell1 Illirio,
eie due armate si àffrontarono nella Mesia: l'esito
fu per lungo tempo indeciso, ma i soldati, che odia-
vano Carino pella sua brutale incontinenza, lo uc-
cisero e proclamarono Diocleziano : Imperatore, Ce-
sare ed Augusto. Arrivato a Roma fece nobile us»
della vittoria, perdonò a tutti che avevano portate le
armi contro di lui; avvenimento inaudito, che dopo
una guerra civile nessuno abbia perduto ne beni nè
l'Onore ne la vita. Divenuto solo padrone dell'impe-
rio, vedendolo assalito in oriente ed occidente da' bar-
bari , associossi Massimiliano Erculeo, del cui valo-
re credette abbisognare» Il suo regno fu lungo e di
avvenimenti ricchissimo: egli fu un gran principe che
governò con saggezza, e conoscendo ciò che gli man-
cava vi supplì associando uomini valenti alle sue fa-
tiche, sui quali conservò sempre una prevalenza,
sebbene per titoli, gli avesse resi a se uguali. Co-
stretto da un'ambizioso e da un'ingrato a rinunzia*
re ali1 impero, rendette volontario con rarissima mo-
derazione ciò che era sforzato nel suo principio.
Seppè vivere da privato dopo essere stato impera-
tore, quantunque gli si presentasse l'occasione di ri-
cuperare la grandezza, ond'era stato spogliato ; chiu-
se il suo cuore a sì forte lusinga, ed antepose gli er-
baggi e le deliziò del suo giardino in Salona al tro-
no di Cesare.
L'orgoglio di eternare la memoria del proprio
nome, il fasto che si età introdotto fra i Romani ar-
ricchiti dalle dovizie dell'Asia, ispirarono a que'mo-
narchi non già il gusto per le arti, ma sì bene la
Vanità dMnnalfàr.e monumenti, che eguagliassero gii
avanzi per lorf "veduti nell'Egitto^ nell'Asia e nella
Grecia, ed H prepotente penstei^ condusse final-
mente a Roma lUrehitefóura e & arti, per essi da
lungo tempo ignorate. -
Un antico pregiudizio nazionale era il motivo,
pèr cui i Romani stimarono gloria il farsi servire
dagli estranei. Perciò Roma non ebbe fra suoi figli se
non tardi, éfii trattasse i marmi-ed il pennello, e que-
ste arti, erano quasi sempre esercitate dagli Etru-
schi e dà'Greci, "co'quali i patrizii largheggiavano
d'oro per innalzare ville, terme, anfiteatri, aquedotti,
strade, delle tquali spesso ci è dato di scoprirne in
Italia gli avanzi. L'architettura pose il suo trono nel»
la vittoriosa Roma dopo la caduta della repubblica,
eppure di que'tanti artisti, che esigevano colla poten-
za del genio loro un tributo dall'orgoglio 4ei loro pa-
'tlroi^i, pochi lutfi vennero trasmessi alia posterità* Il
liberto Lucio Cocejo Aucto amico di Agrippa, squar-
ciò non lungi da Napoli quel largo passaggio nel
monte Pojsilippo, che chiamasi Grotta di Fazzuolo.
falere e Severo servirono alla vanità di Nerope,
fabbricando il palazzo dagli storici detto d'oro, a mo-
tivo della quantità di oro, di gemme, e di perle in es-
so da lui profuse. Apollodoro che cadde vittima del-
la bassa invidia* di Adriano aveva già servito il suo
antecessore ^Traiano,, innalzando quella colonna che
tuttora vedesi in %ma fasciata da un magnifico bas-
so rilievo rappresentate le vittorie riportate da que-
sto imperatore sppra Decebalo te dei Daci. Giulie
Auro esegui in Spagna il famosamente d'Alcantara,
ristaurato, da Carlo ¥ d' Austria, e da Carlo IH di
Spagna. Infine i notabili avanzi ideila villa Adriana
presso Tivoli, il mausoleo, e mole dell' istesso nome
fabbricato da Detrieno, manifestano quanto fosse in
alto la scienza a quell'epoca. Ma collo sfasciamen-
to dell'impero andava in decadimento anche l'archi-
tettura greca e romana, e questo deterioramento si
rese visibile verso la metà del terzo secolo. Il palaz-
zo di Diocleziano se vuoisi fu fabbricato quando an-
cora fioriva quest'arte, ma ad onta della grandiosità
del lavoro, dalla profusione di ornati ben di leggie -
ri all'avveduto indagatore salta agli occhi come già
avesse progredito il decadimento delle arti. La fac-
ciata verso la marina, sebbene sotto i Veneti sacri-
legamente abbandonata, tollerando che ad arbitrio
dei fabbricanti se ne togliessero e colonne ed archi-
travi, che formavano il porticato, presenta tuttora un
avanzo bastantemente conservato. L'inglese Adam*
fu talmente colpito dalla grandiosità del monumento,
che, chiamati appositi, architetti sulle traccie delle
H9 c&e
Cenotaf. Pisan. i. 82.), e nell'orazione Pro damo
sua parlando di Pompeo lo dice: Principemoròis
terree virimi. All'epoca di Augusto troviamo questo
titolo nei Cenotafd pisani, illustrati dall' eruditissimo
Noris adoprato in onore di Tito Statule.no Qunco,
ove è detto Princeps colonùe nostree. Rarissime sit-
uo le lapidi che mostrano un cittadina decorato con
questa illustre onorificenza. L'amplissima collezione
epigrafica del ch^no Qrelli, la ,qyale conta oltre a
•>000 iscrizioni scelte, non ne. ha due con questo
titolo, e delle una è la pisana sopra indicata.
Una sola ha prineeps civìtatis, un# princeps sabi-
norum; e princeps municipiiy come dice la nostra,
nessuna. Lontana essendo l'età dell'uso di questo ti-
tolo, e trovandosene nei publici monumenti rari e-
sempi, ella è verisimile congettura che l'uso ne sia
stato dimesso, Se all'epoca in cui i Riditi lo adope-
rarono era già caduto in dimenticanza, egli è ra-
gionevole il dire che,non , ne avrebbero fatto uso,
scrivendo latino in un public^. monumento mortua-
rio, eretto per eternare la memoria di due loro co-r
spicui cittadini. (sarà continuato).;
LETTERATURA STRANIERA.
D&lì&Revue independante. (Repertorio della
letteratura Straniera N. 70).
Quali sono le partii che ka il popolo nel
dramma storico e nazionale.
La scuola romantica francese prometteva tra
lè altre belle cose di arricchire la letteratura di ve-
ri drammi nazionali, in cui gli antichi re e cavalieri
dovessero rivivere, ed al popolo quel posto venisse
conservato, che nella storia occupa. Ciò, diceva, non
era stato fatto fino allora, nemmen tentato dagli stessi
Corneille, Racine e Voltaire; e dopo d'aver mate-
maticamente dimostrato, che Cinna non era nativo
della Guascogna, che Agrippina non era di Nor-
mandia, e che Edipo non aveva respirato le prime
aure di vita in Borgogna, sollevò un grido di vitto-
ria, e proclamò, mancare a dramma classico france-
se l'elemento nazionale. La scuola romantica quin-
di s'accese per i Greci, per gli Spagnuoli, per Sha-
kespeare, e dichiarò, che in loro solamente trovava
modelli di drammi storici e nazionali. Non si chia-
mavano in fatti gli eroi greci Ajace ed Agamennone, i
non erano gli eroi spagnuoli nati nel cuore dell'An-
dalusia e della Cartiglia, non si addomandavano i
protagonisti di Shakespeare f duchi di York e di Lan-
i caster, Giovanni e Guglielmo? Quello poi che i ro-
mantici in particolare apprezzavano1 in qne' poe-
ti, era. Famore pel popolo, con cui Shakespea-
re e Lope de Vega avevano spesse volte fatto com-
parire nei loro drammi un operaio accanto ad un
-ne» Si disse perciò, che essi fra tutti i poeti erano
i più liberi dai pregiudizi]', eé i meno aristocratici.
u„ Pare strano, che quella scuola con siffatti ar-
gomenti abbia potuto procacciarsi un partito. Vi sono
ancora persone, al giorno idi oggMe quali s'imma-
ginano, non esservi teatro, chè sia; più storico e più
nazionale del greco, più popolare di quello di Sha-
kespeare, e di Lope de Vega> e dimenticano che il
dramma greco è un tessuto di ballate e di favolose
narrazioni, che il dramma di : Shakespeare esalta
l'aristocrazia a spese del popolo> e dei re; e che
quello di Lope offre incenso ai re per umiliare i
nobili e la plebe» ir
Non posà'amo enumerare tutti i drammi popolari
e nazionali, i cui personaggi nacquero nella patria
dell'autore, e che ci narrano le sue storie e le sue
favole; ma queUi solamente in cui si presenta lo spi-
rito di quel paese, ih cui il popolo ha realmente quel-
la gran parte, che gli spetta nella storia, e la ra«r
gione. motrice degli avvenimenti • non è strumento
cieco. Considerato da questo lato, il=dramma classico
francese è tanto nazionale quanto quello dei Greci,
e più nazionale che quello degli Inglesi e Spagnuoli.
Perchè gli eroi di Corneille e di Racine non sono
francesi, non è uopo, che vadano esenti del carat-
tere francese. La parte più considerevole in loro
anzi ci sembra, che comparvero sotto veste dell'an-
tichità} e che assunte le sembianze favolose abbiano
potuto dir cose, che altrimenti non sarebbero state
loro permesse.
Se quindi più da vicino consideriamo i varii
teatri così detti nazionali, troveremo appo i Greci un
dramma meno storico e meno nazionale di quel che
generalmente si vuol ritenere; vedremo che presso
gl'Inglesi e Spagnuoli, nei loro drammi, che chiama-
no nazionali, la parti più meschine sono quelle del
popolo. Da ciò risulterà chiaro, che tali drammi do-
veano esercitare perniciosa influenza sullo spirito,
sui costumi, e sulla politica sociale delle nazioni.
L I drammi ateniesi sono quasi per intero tolti
da Omero e dai rapsodi» Non è da attribuirsi perciò
a Sofocle, ad Eschilo, ad Euripide tanto merito, che
cantarono solamente gli eroi greci, e non altri; fa-
cevano, quel che deve fare ogni poeta drammatico:-
parlavano al popolo di ciò che gli era noto ed'
ventura cK nomina imperiale, con quella dei curatori,
ed avvicina a noi la data dalla caduta «iella città
dei Riditi. Certo egli è che nell'epoca in cui il col-
legio dei fa bri salonitani eresse questa lapide ono-
raria a Tito Flavio Agricola^-esisteva tuttora la co-
lonia equense, ed il municipio dei Riditi, perchè Io
dicono dispensatore di questo o Decurione o Duum-
viro di quella. Se la città dei Riditi, fosse stata
molto prima distrutta di quella di Equo, il nostro
Flavio non avrebbe potuto essere ned essere stato
dispensatore del municipio dei Riditi o decurione o
duumviro della colonia equense. Contemporanee od
in breve distanza tra loro dovea Agricola aver ot-
tenute queste decorazioni.
Ora progrediamo onde investigare l'epoca nel-
la quale potremo fermarsi per determinare con ve-
rismi ig-Iianza la caduta di Equo o del municipio dei
Riditi. L'armi romane guidate da Ottaviano Cesare
nella Liburnia e Dalmazia mediterranee, non reca-
rono strage di città veruna, ch'io sappia sulla no-
stra costa marittima. Veruno storico a me noto lo
dice. Dopo quest' epoca le nostre città al mare vis-
sero in tranquilla pace, sofferendo il giogo de'Ro-
mani , sino alla data di Teodorico re dei Goti, cioè
sino al finire del quinto secolo, ed il regno dei Goti
durò sino all'età di Giustiniano I. imperatore. Pri-
ma di quest'epoca al terminare del quarto secolo la
Liburnia e la Dalmazia mediterranee, soffersero l'ir-
ruzione dei Goti e particolarmente quella di cui par-
ia il nostro Santo dottore (m com. soph. ad an.
34)2/);. ed in questa lagrimevole età, tra l'anno 385
e 392 cadde Stridone (Append. esame criL ec.),
ed in quel torno cadde forse anche la colonia equen-
se. Poco dopo nell'anno 400, i Goti nominarono a
loro re Alarico, e si diressero alla conquista dell'I-
talia, ma non discesero al mare. Ce ne assicura Zo-
zimo L. V. c. 29, ed il nostro eruditissimo scritto-
re F. M. Appendini, il quale ha esaminato e trat-
tato in esteso questo argomento, difendendo come
ha difeso valorosamente ed eruditamente la patria
<lel nostro santo protettore. Verisimile sendo che la
colonia equense sia caduta in questa sventurata e-
poca, e vero com'egli è che i Goti di Alarico non
discesero al nostro mare; si potrà con tutta ragio-
ne opinare, che dopo la distruzione di Equo, abbia
sussistito ancora la città dei Riditi, e che sussistes-
se per avventura sino all'invasione degli Slavi, colla
quale data ci avviciniamo all'età del geografo Ra-
vennate, il quale, giova il ripeterlo, parla del mu-
cipio dei Riditi, come esistente e da poco distrutto.
darà U fine).
LETTERATURA STRANIERA.
;. Dalla Rerue independante. (Repertorio della
letteratura straniera N. 70).
Quali sono le parti, che ha il popola nel
dramma storico e nazionale.
(Continuazione).
II. Se i tragici della Grecia non avevano quasi
alcun riguardo alle circostanze sociali della loro
età, se facevansi a dire appena qualche parola, re-
lativamente al popolo ed alla republica, meno eroi
sublimando di quelli che la storia lor offerisse; ciò
nondimeno al dire dei critici, appartenevano le per-
sone loro alla grande famiglia dei Greci, i quali se
non fratelli erano loro affini. Agamennone non è a-
teniese. Edipo è tebano, eppure ambidue sono gre-
ci e pagani, ambidue parlano la lingua di Atene,
adorandone gl'Iddii. Perchè dunque Corneille e lla-
cine non imitarono Eschilo e Sofocle, e non poten-
dovi ritrovar nessun eroe veramente francese, non
fecero sublimi almeno gli eroi de'romanzi di caval-
leria, i martiri o i santi? Chi per tal guisa diman-
da, travede il secolo de'classici de'Greci e quello
de'classici francesi ; perciocché il greco poteva par-
lar francamente di re e di assoluto potere; nè v'era
a temersi, che il popolo ateniese, il quale sapeva
sbrigar le proprie ed occorrendo anche le altrui fac-
cende, ai tempi di Temistocle e Pericle, entusiato
per un poema, rinunziasse ajle sue reali libertà, e
prestasse in vita ossequio a quell'Agamennone cui
sulle scene applaudiva. Ben diversa era la bisogna
in Francia ai tempi di Corneille e di Racine. Poiché
non si ammiravano nè i cavalieri, nè gli eroi delia
chiesa cui la dottrina del secolo decimosesto conve-
nientemente non valutava, gli animi agli antichi tempi
volgendo. Astrée l'ultimo romanzo pastoreccio e di
cavalleria dimostrava -evidentemente tale tendenza
che doveva di poi prevalere. Ne' boschi e nèlle fonti
non soggiornavano più le fate, ma ninfe ed ama-
driadi, e nel palazzo d'Astrea, invece delle impre-
se di Amadi e delle magie di Merlino, vedevansi
effigiati Saturno, Teti ed Apollo; perduto si era il
gusto per le cose del medio evo: le guerre di re-
ligione e la notte di S. Bartolommeo non erano an-
cora cancellate dalla memoria degli uomini, ed era
cosa buona, che quelle religiose idee si tacessero.
Se i poeti del secolo i7.° non parlavano di reli-
gione senza parteggiare, ben più diffìcile riesce lo-
ro il discorrer della cavalleria e degli eroi francesi
del medio evo. La nobiltà ed il trono non avrebbero
permesso di espor sulle scene alla vista de'plebei
la classe alta e privilegiata. La nobiltà che in Mo-
Pirosiegue ei quindi narrando come cotesto a-
vevagli rapiti i primi libri della sua opera, senza
speranza di più riaverli, per cui era stato obbliga-
to rinnovare la fatica ponendovi maggior solerzia*
La risposta poi dell'amico arciprete palesa il
suo rincrescimento [per lo praticatogli* furto , e lo
stimola inoltre a rendere publieo colle stampe il suo
lavoro. Da ciò si riconosce dunque fra essi un le-
game di amicizia, e di scambievole persuasione. Puo-
tesi pertanto con molta probabilità dedurre, che nel
cozzo delle opinioni, le sue fossero quelle del sa-
cerdozio per Roma, non conformi alle concepite da
coloro che reggevano in que'tempi i nostri destini;
sostenute forse anco poi con soverchia alacrità, e
poca prudenza, per cui si attirasse lo cruccio dei
dominanti, quindi la pena del bando. In tale disav-
ventura avvolgevamo dunque o il carattere che al
nazionale troppo attenevasi, o la tristezza delle cir-
costanze fatali sempre per anime ingenue sottopo-
ste alla malignità ed alla invidia o tutte due queste
cagioni. Egli poi celonne il motivo persuaso del det-
to di Tacito:
Domestica mala tristitia operanda.
Ma riponiamoci in cammino.
Nel libro primo indaga lo Zavoreo l'origine
dei popoli illirici, le confinazioni delloro regno, i
dominatori di esso. Dimostra l'orgogliosa condotta
di Teuta, la punizione severa inflittale dai Romani,
la prigionia di Genzio^ l'estinzione del suo regno.
Cerca stabilire i limiti della Dalmazia, la derivazio-
ne del nome, le vicende guerresche nel suo seno
sostenute, a cui non isdegnò l'eroe di Azio farvi
parte.
Ma caduto l'impero occidentale, al fiottò dei
barbari la Dalmazia inondata cede agli Ostrogoti il
dominio. Battuti questi, le città marittime ubbidisco-
no agli imperatori di Oriente. Nulladimeno Zara,
chiamata la ricca, la forte al pari di Salona, viene
con questa distrutta. Teodorico il più illuminato? ed
«mano tra barbari, resta signore della Dalmazia;
ma Mundo e Costanzo tolgonla da tal giogo per ag-
gravarla del bisantino.
. Passando al secondo libro, narra l'invasione
de'Vandali e dei Slavi sotto Maurizio nel 583, la
diversità de' due popoli, la loro barbarie nel disastra-
re queste contrade.
Principia con Solimiro il regno degli Slavi.
Rodimiro nel 678 demolisce Salona, e Saverio che
difendevala, è costretto a ripararsi in Spalato. Ma
l'impero d'occidente dalle sue ruine risorge, e Carlo
Magno, in cui riviveva l1 anima di Traiano, novella-
mente lo fonda. Donato e Pietro conte di Zara per
la Dalmazia giurangli fedeltà; ma Niceforo impera-
tore in Oriente poco stante la riacquista.
L'ardire dei Narentani, le molestie dei Sara-
ceni, obbligano i dalmati ad implorare la veneta
protezione. Pietro arcivescovo di Spalato^ ottiene da
Clemente III de'privilegi, ed il racconto sul propo-
sito ha qualche piacevolezza. La maniera di giudi-
care dei bani, il carattere di alcuni re slavi, la spe-
dizione di Pietro Candiano doge dì Venezia spento
in uno scontro sanguinoso coi narentani, e le sue
ceneri trasportate a Grao in succinto < racconta. Ma
finalmente vedesi la Dalmazia soggetta a'Veneti al-
l'infuori di Lesina e di Curzola sotto Orseolo, ca-
dendo anche coteste dopo prove di reciproco valore.
Sembra eh' ei- sia di avviso non essere stata
giammai la Dalmazia marittima soggetta propria-
mente agli Slavi.
Tocchiamo ora il terzo lihro.
Chiama egli in prima la parte inferiore della
Dalmazia, Croazia bianca. Poi di Polimiro favella, sui
allargati confini di Ragusi; sul dono di Stefano alla
medesima di Breno e di Ombla, trattenendosi di quel-
le rive bagnate dal fiume.
Nell'anno i058 Cresimiro viene da Ottone do-
ge" di Venezia, battuto presso Zara, e venuto con
lui agli accordi, fu al primo data Belgrado ora Za-
ravecchia, ove il re edifica la chiesa di san Giovanni
Battista, fa largizioni all'abate ed ai monaci, e li as-
solve da qualunque obbligo di contributo verso i ba-
ni, e gli altri magistrati. L'atto veniva esteso alla
presenza di Mainardo, delegato apostolico, e non
ismarrito ancora. La Dalmazia all'ombra dell'egida
veneta riposava. II rinvenimento del corpo di saA
Grisogono in Zara lo fa nell'anno 1046 sotto il ve-
scovo Andrea. Alla morte di Cresimiro sale al trono
Zvonimiro devoto al romano potere. Ei s'impossessa
di Zara, cacciandone Orso Giustiniano rettore. Mo-
stra incertezza però se un tale fatto avvenisse sot-
to un simile re, o sotto Salomone. Sembragli certo
però che Domenico Silvio accorresse a ritorglierla,
come accadde, piegando le altre città, tutte della co-
stiera sotto il medesimo destino.
Qui espone un fatto alquanto faceto, che tie-
ne rapporto alla liturgia slava, che noi renderemo
fedelmente, onde temperare l'aridità della materia, e
far conoscere l'ignoranza ed i costumi di quell'età.
Allora un certo sacerdote forestiero, dice} per
nome Vulfo, capitato dalla parte della Croazia, uo-
nella Bucovizza, a destra del fiume Tedanio (Zer- |
magna), tra le campagne di Xegar ed Ervenik, ove ;
tutt ora si scorgono delle rovine da me vedute d'una !
città distrutta: ma questi pure molto si allontanano
dal vero, perchè questa Sidrona sarebbe di troppo
vicina al mare, contro il detto del santo medesimo.
Vi sono ancora non pochi Pannoni, che san
Girolamo vorrebbono suo, perchè nato nelle loro
terre, cioè a Sdrino in Slavonia. Però anche questi
non men degli altri si allontanano dal vero a moti-
vo del confine, cui chiaramente fissava san Girola-
mo, dicendo nel libro De viris iUustribus, esser lui
nato precisamente in Dalmazia, e non in Slavonia,
vale addire nel castello di Stridone, già distrutto
dalla ferocia de'Goti, fin dove arrivava il confine
della Dalmazia e della Pannonia: Stridone opido,
quod a Gothis eversimi, Dalmalice quondam et Pan-
nonia? confinium. Questa precisa dichiarazione di
Girolamo serve di base a tutti gli scrittori del mon-
do, appunto per rilevare l'antico confine fra la Dal-
mazia e la Pannonia, alla quale apparteneva allora
pure la Slavonia, Risulta ciò eziandio dalla carta
geografica dell'impero romano, sotto il cui dominio
viveva il santo, carta descritta dal celebre M. Ma-
rulo, mercè cui convinceva della dalmata naziona-
lità del santo tutti coloro che non dalmata propria-
mente lo volevano»
Quelli poi, che più si accostano al vero an-
che a mio avviso, sono que'dessi che tengono per
patria di san Girolamo le rovine di Stridonia, da
me stesso veduta mesi fa, e> la pongono presso il
fiumicello chiamato Strisna, da cui Stridonia, che
sgorga dalle ripide falde del monte Pastirevo, ramo
del grande Velebich, e scorrendo verso Costainiza,
si vuota nel fiume Unna. ,
La posizione delle menzionate rovine di Stri-
donia porge tutta la probabilità allo storico essere
elleno, dove poggiava il castello, patria di san Gi— j
rolamo, sì perchè vicino agli antichi confini della
Pannonia e della Dalmazia, stabiliti dai Pannoni,
come Io stesso santo ci assicura, e si perchè lon-
tano dal mare.
Questa probabilità viene avvalorata dalle trac-
ce che oggi pure si scorgono d'una strada romana,
la quale lungo le falde del Pastirevo dall'Italia con-
duceva nel Sirmio, e la quale oggi pure si chiama
da que' rustici rimska, romana, strada riconosciuta ,
ancora dal governo delle provincie illiriche, dietro
alle tracce delia quale aveva costruita una nuova
da Costainiza, dove aveva aperto l'accesso alle ca-
rovane turche, e quindi attivato il commercio fra la
Turchia e le sue provincie illiriche sino a Carlstadt,
indi a Lubiana.
La stessa probabilità porgerebbe ragione a
supporre, che essendo stata la patria di san Giro-
lamo tanto vicina al confine della Pannonia, sia star
ta la prima a piangere le sue rovine per un' orda
di Goti, usciti appunto dalla Pannonia, e che di-
strutto quel castello si dirigessero lungo questa stra-
da antica, verso l'Italia, lasciando per ogni dove
tracce della loro barbarie.
È vero, che il regno della Dalmazia soffrì in
seguito delle divisioni politiche, per cui una porzio-
ne è soggetta al dominio ungarico, molta parte è
sotto il giogo turco (tutto il ducato di santo Saba,
chiamato Erzegovina), ed una terza era posseduta
dai veneti, ora sotto lo scettro dell'Augustissima
Casa d'Austria; ma è vero altresì che siffatte divi-
sioni politiche nè possono nè deggiono togliere la
nazionalità dalmata del gran dottore san Girolamo.
Mentre regnava Zvonimiro, ultimo re della Dalma-
zia, il suo regno comprendeva tutta la Croazia. Ciò
risulta dal congresso nazionale, cui aveva nell'11.*
secolo convocato Zvonimiro [nella vasta pianura di
Konjsko, ora in gran parte posseduta dalla nobile
famiglia Tartaglia di Spalato, dove dai proceri Croati
venne ucciso l'infelice Zvonimiro, il qual orribile
fatto, tra tanti altri nazionali scrittori, ci lasciò de-
scritto il chiarissimo Dom. Zavoreo. Per punire un
tanto delitto, la potenza ungarica mosse con forte
armata contro la Dalmazia, e l'occupò tutta. Risulta
pure che l'arcivescovo di Salona, sino agli ultimi
tempi s'intitolava anche primate della Croazia, ed
i vescovi pure di quelle parti concorrevano ai con-
cilii nazionali tenutisi più fiate a Salona; si è per-
ciò che la giurisdizione di questo primate si esten-
deva sino dove giungeva il dominio del regno della
Dalmazia.
Col sin qui esposto io non intendeva di entra-
re in polemiche cogli scrittori, che l'uno o l'altro
degli assunti difendevano, volli, come dissi esporre
al publico queste mie osservazioni, perchè ove me*-
ritevoli fossero trovate, servano di soggetto ad una
illustrazione di più, e novella prova, che san Giro-
lamo era dalmata, jP. Costantino Boxich*
BEI GIUDIZI! DI SANGUE
NEL CIRCOLO DI C&TTARO.
Parecchi scrittori e nazionali e stranieri ci rap-
presentarono la vendetta qual passione predominante
<=££> 222
se acceso e sublimato allora 3 furor popolare. A quei
pochi, ma sanguinosi giorni,.successe la dominazione
austriaca, ma ceduta nel 1806 a'Francesi la Dal-
mazia col trattato di Presburgo, nuovi politici rivol-
gimenti recarono nuovi mali a quella provincia. Ne^
gli ultimi giorni del gennaio 1808 anche al senato
di Ragusa venne intimata la dissoluzioue.
L'assedio di Zara nel 1809 è circostanzialmen-
te descritto al capatole 9.* L'insurrezione degli Scar-
doneiiì salyafi poi dal maresciallo Marmont, la riti-
rata dei Francesi da Sebenico, la resa capitolata dal
generale francese nel 1813 terminano questa narra-
zioni alla quale tien dietro un saggio sull'amministra-
j&ione publica in Dalmazia sia negli ultimi anni, sia
al tempo della caduta della veneta repubblica, «altro
saggio sul culto, sulla pubblica istruzione, sulla pub-
blica beneficenza, sulle arti, fabbriche, manifatture,
commercio dfella Dalmazia, statistica del suolo, dei
prodotti, e della popolazione al tempo della caduta
del veneto governo. Chiude un cenno sull'amministra-
zione publica del regno d'Italia in Dalmazia.
Che in tale amministrazione il veneto governo
non le fosse sommamente giovevole possiamo cre-
derlo. La nazione per altro a quel governo era af-
fezionata assai, e questo prova che il giogo di esso
non era tirannico.
Un patrizio veneto col tìtolo di provveditore
generale gotkmava la Dalmazia. Nei tre anni del
sito regime egli faceva pompa grandissima,'non solo
dì ricca sontuosità, ma ben, anche di sovrana rap-
presentanza. Avea una numerosa corte militare di
sua personale -guardia, forza marittima a sua'dì-
sposizione, vestito da duca sovrano, unico per forma
e colore da capo a piedi; in fine tutto ciò che abba-
gliare poteva la nazionale illusione specialmente dei
morlacchì dai quali era venerato quasi nume. Essi
prcsentavansi ginocchio al suo cospetto più volte
indirizzandogli le parole di re.
Pochi ufficii, pochi magistrati importavano te-
nui spese, tenui aggravi publici alla nazione. Quan-
do Venezia fu venduta e tradita dagli stessi suoi
figli, nel terribile zorno dei dodese, i fedeli schiavo-
ni, sotto al qual nome si comprendevano pella mag-
gior parte Dalmati-, non volevano cedere ad alcun
patto: unitisi in orde giravano armati per le vie di
Venezia, proclamando il loro Marco9 e invano
per due giorni chiesero alla moriente sovrana un
campione che alla loro testa rivendicasse i suoi di-
ritti all'abandonato lione. E gli abitanti di Perasto
funeravano intanto con solenne cerimonia all'amata
regina dell'Adria, e con patetica allocuzione ne se-
pellivano lo stendardo. Un governo che fu tristo, ti-
rannico, improvido non finì mai fra simili dimostra-
zioni d'amore.
Del resto sotto il mite attuale impero i lumi,
l'agricoltura, il commercio presero un sufficiente svi-
luppo in questo paese, e maggiore il sarà ancora,
quando venga compiuta la strada (tracciata a'tempi
del governo italiano) che dee mettere da un capo
all'altro della provincia. Maggiori cure aumenteran-
no d'assai i prodotti dell'agricoltura e della pasto-
rizia. L'asciugamento or mai decretato delle paludi
della Narenta, renderà la Dalmazia ricca in grano
quanto la Sicilia, mentre ora quasi tutto il guada-
gno che ci si fa colla pesca e coll'olio, viene espor-
tato per acquistare granaglie.
Questo è quanto ci parve dover dire intorno
il soggetto che ci offerse il sig. Cattalinich. Il suo
libro certamente deve avergli costato molta fatica è
meritargli molta considerazione presso a' suoi nazio-
nali, poiché riteniamo non avrà incorso in errori
eguali a quello ch'io mi permetto ricordargli, e gli
venne affermando nella sua storia dalmata (tomol, p.
l£7) circa l'espugnazione di Pharus. Imperciocché
ei primieramente dice, che i Romani s'impadronirono
di un colle fortificato, mentre Polibio scrisse, che
essi occuparono un colle forte di sito. Dice poi che
i Romani il giorno seguente presero d'assalto la cit-
tà, ma questa circostanza non ci fu- tramandata dal-
lo storico greco. Dice in fine che per testimonianza
dello stesso Polibio, la tyWà di Pharus venne fab-
bricata in fretta dai Parii, e che perciò le mura.n'e-
rano di debole costruzione,, ma eziandio questo fatto
Polibio non ebbe ad asserire giammai. E qui frattanto
si noti che il sig. Cattalinich, accennando alla debo-
lezza delle mura di Pharus contraddice a sè medesi-
mo, avendo detto poco sopra che Emilio aveva con-
tezza essere Pharus bene fortificata. E che essa tale
si fosse Io si può sapere da Diodoro Siculo, il qua-
le (libro V. cap. #3), ci lasciò scritto che i Parii,
che erano già andati ad abitare Pharo, con mura-
glia e torri fortificarono la loro città.
Ci perdoni il sig. Cattalinich questa piccola di-
gressione e queste osservazioni che ci sembrarono
imperdonabili in uno storico.
Del resto è di grande momento e di speciale in-
teresse per i Dalmati e per gl'Italiani tutti la nar-
razione contenuta al cap. 7 delle sue memorie sul
combattimento di Lissa, in cui molto segnalossi la ve-
neta marina sotto il comando principale dei due pa-
mrnmmtm gag
l'amore fraterno, e datone l'esempio ; che il far no-
to e al possibile onorato il nome dalmatico al di
fuori non è de'più inutili uffizii di patria carità.
Sappia che olfcre ad.n^^ume non piccolo di canti
serbici, da me tradotti e, se non con dottrina, con
amore illustrati; io ho in pronto due volumi di canti
del popolo nostro, i quali sarebbero già usciti in luce,
se si fosse potuta coprire la spesa della stampa, se
a'molti de'nostri (deplorabile a dirsi) la poesia del
popolo non paresse quasi degna di spregio, e se allo
stessa benemerito signor Vuk Stefanovich questa
cagione non vietasse (secondo che mi vien detto)
dar fuori il restante della sua preziosa raccol-
ti. Sappia che sebbene inesperto della serbica lin-
gua, tuttavia non la reputo estranea a me; che le
opere di Dositeo Obradovich segnatamente mi so-
no quotidiana lettura. E l'amo perch' egli scri-
ve con semplicità, senza fiele nò fumo d'orgo-
glio; l'amo perch'egli si compiace d'essere molto
tempo vissuto fra contadini, e si gloria di farci sa-
pere che i suoi antenati e di padre e di madre furono
contadini (1); l'amo, perch'egli col coraggio del-
l'affetto fu il primo che sapesse e volesse adoperare
ne'libii la lingua de'bifolchi (2), questa nobile e ver-
gine lingua delle serbiche foreste e delle montagne
dalmatiche; l'amo, pereh'egli, sentendo nell'anima,
senza che alcun pedagogo ne Io facesse avvertito,
sentendo nell'anima la sovrana bellezza de'canti del
popolo, li reputò meritevoli d'essere citati come au-
torità in un trattato d'Etica, a quella guisa che i
greci filosofi citano Omero (3); l'amo perchè dalla
storia patria c'insegnò a torre documenti morali, e
nell'Eticaappunto rammentò non Farsaglia e non Ma-
ratona , ma la battaglia di Cossovo ("4) ; l'amo, per-
chè sebbene tardato ne'propri studi, sebbene angu-
«tiato dalla povertà, e sollecitato dall'ansietà di gio-
vare agl'infelici fratelli, ciò non ostante sentiva il
bisogno del limare i suoi scritti, del rimeditar la pa-
rola, e, quasi diletta prole, educarla; e confessava
l'imperfezione del proprio stile in modo degno del-
la serbica generosa schiettezza (5). Se agli scritti
di lui quasi sempre l'ordine manca, e sovente la no-
vità delle idee; se qualche rara volta dimentico del-
la propria natura, egli si mette a sgarbatamente i-
mitare le maniere affettate dclfarte^ (6J; codesti di-
(1) Mezimac p. 38.
(2) Ini p. 31.
(3 ) Etica p. 109,
(4) Etica p. 14.
(5) Mezimac p. 30.
(6) tla csvìnjHo. Beata aura e zefiro benedetto che
fetti compensa tutti l'inestimabile amore del bene che
dalle sue pagine spira. Egli amava sinceramente l'o-
nore della patria cara ; ed appunto la sincerità pone-
va come fondamento della nazionale grandezza (1);
sebbene in un luogo permetta la menzogna, ove ne-
cessità grande ovver l'utile comune la chiegga (2).
Sinceramente amava il bene dell'umanità tutta quan-
ta, e tutta la terra diceva sua patria, e le nazioni più
civili aveva più care (3). E sebbene in un luogo
consigli ogni fatica per fuggire la nera povertà (4);
prima ancora che all' industria egli chiedeva al-
l'affetto la rigenerazione dei popoli. E però ne-
gli esempi gentilmente animosi delle donne pone-
va grande speranza (5); siccome quegli che ben co-
nosceva che la madre è maestra, l'amante è ispi-
ratrice, la moglie è conservatrice degli alti sen-
si e degli abiti virtuosi. E sebbene, per copiare una
falsa sentenza di Fedro, egli dica non convenirsi far
bene agi' ingrati (6), in altri luoghi ci raccomanda
che riguardiamo al lontano giovamento di chi verrà
dopo noi; che ogni giorno sull'alba vogliamo annaf-
fiare le tenere piante, alla cui ombra riposeranno i
nostri nepoti (7); che le contraddizioni e gli odii
degli uomini sconoscenti con nuove beneficenze vin-
ciamo. — a Scrittore che sempre ha tenuto la par-
„ te elei vero e del giusto, ha per nulla le maldicen-
te, le persecuzioni, gli scherni; quand'egli sente
„ nel cuore la soavità dell'avere usato a prò del ge-
mere umano il talento affidatogli da Dio; quando
„ pensa che negli anni lontani, allorché il corpo suo
„ sarà polvere, molti dalle sue fatiche trarran giova-
mento, che dal male si desteranno, e si rafferme-
„ ranno nel bene (8),r
II signor dottore Petranovich, che ama di lo-
devole amore la patria e gli studi, segua nella tolle-
ranza, nell'urbanità, nella indulgenza verso i deboli
e gli erranti par miei, l'esempio del buon Dositeo:
ed avrà certo da'suoi compatrioti, e da me primo,
gratitudine viva. Ma s'egli volesse pur tuttavia dar
soffiarono neM^lTtela7Ìel cavalltTclFlegno, sul
quale cavalcai il mare adriatico, l'arcipelago, il
mediterraneo, sino all'aurea mia Smirne, e dal se-
no di lei colsi tutta sorta fiori de'quali empiei la
mente e il cuor mio,, ! — Pervenac 105. 106.
\ (1) Mezimac 136.
(2) Sovjeti 57.
(3) Ivi, p. 56.
(4) Pervenac 145.
(5) Sobranje 116.
(6) Pervenac p. 08. Ed. del 1830.
(?) Mezimac 187.
(8) Sobranje p. 12.